La primavera egiziana

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A sei anni dai tumulti di piazza che hanno portato in Egitto la cosiddetta primavera egiziana, frutto prematuro della ben più nota ed ampia “Primavera araba”, la situazione politica interna egiziana non sembra essere più democratica e rosea di quanto non lo fosse sotto il regime di Hosni Mubarak, l’eterno “faraone” che ha tenuto in scacco il paese per trent’anni, spodestato dalla carica presidenziale solo all’inizio del 2011 per mano del suo stesso popolo. Secondo il country report di Freedom House dopo sei anni non è cambiato niente in Egitto, il Freedom rating è fossilizzato sullo stesso punteggio scoraggiante.

Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha spinto gli egiziani ad uscire dal loro torpore?

L’effetto domino che si è innescato nel mondo arabo tra la fine del 2010 e l’inizio del  2011,  e  che  è  culminato,  in  Egitto,  nella “rivoluzione”  del  25  gennaio con le dimissioni di Mubarak, ha segnato l’inizio di una nuova era in cui il dissenso politico è serpeggiato da un social all’altro fino ad arrivare a riunire milioni di voci – prima virtuali, poi reali – in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Una fiamma che è divampata da una piccola scintilla (il suicidio di Mohamed Bouazizi, attivista tunisino che si è dato fuoco in segno di protesta contro i maltrattamenti delle forze di polizia) e ha demolito dei sistemi granitici che nel mondo arabo avevano buttato radici secolari, arrivando fino al cuore stesso della società ed entrando così nella normalità di tutti i giorni. Lo scontento verso la politica nazionale, la ricerca di giustizia ed un bisogno spasmodico di un cambiamento sociale radicale sono solo l’inizio di una lunga lista di motivi che ha portato una protesta digitale sul piano reale,  raccogliendo  tra  i  suoi  ranghi  le  più  diverse  personalità:  laici,  religiosi,  uomini, donne,  lavoratori, studenti,  borghesi  e  poveri;  tra  tutti, a  spiccare  maggiormente,  sono  i volti   dei   giovani, lo strato della società che ha iniziato e portato a termine la rivoluzione.

Ma cosa è realmente cambiato dopo la “primavera egiziana”?

Dopo un’iniziale fase di assestamento, nella quale emerge piuttosto forte la presenza dei Fratelli musulmani, Muhammad Mursi vince le elezioni presidenziali del 2012, divenendo di fatto il primo presidente egiziano democraticamente eletto. A sostenerlo c’è proprio la Fratellanza, alle cui file Mursi appartiene, ed è forse questo uno dei motivi per cui la sua presidenza ha breve durata; una rivoluzione tendenzialmente laica porta al vertice dello stato un’associazione religiosa che perde di vista i principi per cui Mubarak è stato scacciato e si concentra solo sulla sua vocazione tradizionalista, nel tentativo di riportare la situazione politica e sociale a quella stessa chiusura aborrata dai partecipanti alle numerose manifestazioni che hanno portato alle dimissioni del precedente presidente. L’opposizione si fa sentire a gran voce quando entra in vigore la Costituzione voluta da Mursi, di stampo prettamente islamista, dopo il referendum del 15 e 22 dicembre 2012. Le nuove proteste di piazza vengono represse nel sangue, ma questa volta l’esercito – finora un accompagnamento silenzioso – si intromette nelle vicende politiche e dà un ultimatum al presidente… che cade nel vuoto. Il 3 luglio 2013 Mursi viene deposto con un golpe che mette fine alla carriera del primo presidente egiziano democraticamente eletto.

La democrazia è messa a dura prova dopo il golpe.

Dopo una fase di transizione intermediaria, nella quale viene nominato un presidente ad interim e varata una nuova Costituzione, a vincere le elezioni presidenziali del maggio 2014 è niente meno che Abd al-Fattah al-Sisi, prima Ministro della difesa e poi Vice primo ministro d’Egitto; al-Sisi ha partecipato al golpe che ha destituito Mursi ed è stata una delle personalità più importanti nella storia nazionale degli ultimi anni, dove l’esercito ha sempre ricoperto un’importanza fondamentale… sia per uscire dalla situazione di crisi politica post-Mubarak, sia per reprimere o incoraggiare le proteste di piazza in base alle necessità. Se durante la presidenza della Fratellanza l’esercito si è preso la libertà di intervenire direttamente con un colpo di stato, ora che è un militare a detenere il potere egiziano è stato addirittura abolito il diritto di manifestare. Ogni trasgressione o opposizione viene punita col carcere e la tortura. La repressione e l’intimidazione sono un’arma che viene usata tutti i giorni contro i cittadini egiziani, sia sulle piattaforme digitali che nelle piazze della città. Amnesty International è tra le prime organizzazioni internazionali a denunciare le atrocità che vengono commesse sotto il nuovo governo, tra cui i cosiddetti test di verginità che vengono imposti alle donne incarcerate dopo le manifestazioni.
Ai cittadini egiziani viene negato il diritto di manifestare e spesso e volentieri le più basilari libertà personali vengono violate senza che nessuno possa farci niente. E su tutto, come un velo pesante, cala la censura governativa che sui canali tradizionali e quelli digitali viene sistematicamente applicata.

Gli sforzi compiuti nel nome di una nuova democrazia sembrano ora vani, a sei anni dai primi tumulti di piazza. Il nuovo governo assomiglia inquietamente al vecchio, e della primavera egiziana non si sente che un refolo di vento, ormai.

Photo by Stephlulu on Flickr